NonSoloMatrioske ha cambiato indirizzo, diventando più ampio ed efficiente.
Seguitemi al nuovo URL:
http://nsmatrioske.altervista.org
Grazie!!!
Valentina
NonSoloMatrioske
pensieri sul mondo russo come passione, curiosità, scoperta
mercoledì 21 maggio 2014
martedì 29 aprile 2014
Curiosando fra ritratti russi dell'Ottocento...
Alla galleria Tretyakovskaya di Mosca si possono ammirare quadri russi dal 1500 ai giorni nostri. La stragrande maggioranza di dipinti, fino all'Ottocento, è costituita da ritratti. Devo dire che sono passata velocemente per le stanze dei primi ritratti, perché sebbene ogni tanto qualcuno emerga dal mucchio e colpisca, sono standardizzati, imbrigliati dai doveri della tradizione, dal gusto dell'epoca. E' a partire dall'Ottocento che in Russia emerge una pittura nuova, più matura, più affine al gusto contemporaneo, dove si vuole mostrare non soltanto l'aristocrazia, ma anche e soprattutto i contadini, il popolo. Qui si fanno notare pittori straordinari come Perov e Repin. Delle loro opere vorrei far notare i ritratti nuovamente, a sottolineare la differenza tra ritratti nuovi, che parlano, e quelli appartenenti ai periodi precedenti.
Analizziamone alcuni, a mio parere significativi.
"Allegoria dell'inverno a immagine di un vecchio"che si riscalda le mani vicino al fuoco è un quadro di Borovikovskij del 1804. Già qui cominciano ad emergere caratterizzazioni che esprimono agonia e povertà attraverso lo sguardo mendicante e le rughe di un anziano dagli abiti dismessi. Mi ricorda tanto il barbone di "Aqualung" dei Jethro Tull, descritto non solo dalle splendide parole della canzone, ma anche raffigurato nella copertina del disco, mentre si regge i lembi del cappotto, "eying up little girls with bad intents" (guardando ragazzine con cattive intenzioni). Con Borovikovskij, però, non ci si è ancora spinti oltre la tradizione: siamo nell'ambito della sublimazione dell'allegoria, che edulcora la realtà e ci dice che non dobbiamo spaventarci, perché quel vecchio è l'Inverno astratto, non esiste realmente.
Il passo avanti nella direzione del realismo arriva con un capolavoro del 1868: l'opera "Fomushka-sych"di Perov, che raffigura un contadino. In ogni piega della barba folta e scomposta, con arricciature che ricordano quelle delle sculture greco-romane raffiguranti satiri o fauni, possiamo cogliere la meticolosa precisione nella rappresentazione della complessità della persona raffigurata. La bocca è tesa all'ingiù, lo sguardo è penetrante con una punta arcigna, sofferente ma beffarda. L'uomo ci guarda e ci sfida, buttandoci in faccia, con la profondità del suo essere, tutta la semplice verità della sua storia. Questa muta e поразительная (termine intraducibile in italiano se non in: "che colpisce") capacità rivelatrice conferisce al contadino qualcosa di demoniaco, che riesce a toccare qualcosa dentro chi lo osserva, pur lasciando lo spettatore incapace di descrivere precisamente cosa. Non a caso Turgenev lo paragonò a Socrate.
Perov è anche autore del famoso ritratto di Dostoevskij, dove lo scrittore è raffigurato con le mani congiunte in un'espressione pensierosa, che si potrebbe dire colga il maestro nella drammaticità del suo atto creativo.
Repin, contemporaneamente a Perov, porta l'espressione dei suoi uomini del popolo ad un livello lirico. Celebre è il suo macabro quadro: "Ivan il terribile e suo figlio Ivan", in cui lo zar è ritratto nell'espressione di terrore, pentimento, sgomento e orrore che lo pervade, un attimo dopo aver ucciso suo figlio. Il quadro è magistrale, parla da sé. Commentare le sensazioni che lascia sarebbe superfluo e non gli renderebbe la dovuta giustizia. Interessante è lo studio per l'espressione di Ivan che Repin condusse, realizzando il ritratto del pittore Myasoedov, dallo sguardo allucinato. La straordinarietà dell'abilità del pittore è nel riuscire a conferire ai suoi ritratti sguardi estremamente forti, pur non indirizzandoli direttamente allo spettatore. Si sa che lo sguardo "in camera"è più diretto e fu la fortuna di innumerevoli dipinti e fotografie (si pensi alla Gioconda), ma qui la disperazione rivolta altrove è persino più efficace, perché permette un'empatia maggiore con il soggetto, poiché lo sguardo non ghermisce l'Io a cui il soggetto si rivolge, e lo lascia libero di immedesimarsi.
Sempre Repin, nel suo "burlaki na Volge"(battellieri sul Volga)- che si può ammirare a San Pietroburgo nel Museo Nazionale- realizza un'opera eccezionale perché contiene un ritratto. Nel quadro, 11 trasportatori vengono colti nel momento del lavoro- essi trainano, legati tutti insieme, la barca che si intravede dietro, a destra, avanzando a fatica con una gamba, le corde a far leva sul petto. Uno in particolare non si può non notare. Il volto simile a quello di un filosofo, il suo sguardo è imbronciato e insieme calmo, saggio, le sopracciglia aggrottate verso il basso, la gravità dell'espressione che porta e sopporta il peso fisico della barca, morale della vita. Si tratta di Kanin, uno dei battellieri che Repin incontrò nel suo viaggio sul Volga e che lo lasciò estasiato, poiché a suo avviso si distingueva da tutti gli altri: dalla "larga fronte intelligente", com'egli lo definisce nel suo scritto "Lontano-vicino", egli è "il culmine dell'epopea dei battellieri". Il quadro impressionò positivamente anche Dostoevskij, che scrisse che sfugge ai luoghi comuni, perché "fortunatamente, vi sono rappresentati battellieri, veri battellieri e nient'altro. Nessuno di essi nel quadro grida allo spettatore quanto è infelice, e fino a dove le classi più alte hanno indebitato il popolo".
Sulla stessa scia è infine il ritratto di Mina Moiseev di Kramskoj, del 1883. Qui nuovamente è dipinto un vecchio contadino rugoso con le braccia conserte, posizionato di 3 quarti, che solo ad una prima occhiata appare dimesso e fragile, poiché in realtà ha ampie spalle e un'espressione forte, si direbbe quasi sorrida sotto l'ampia barba. Non è sofferente. Appare saggio e consapevole, in quegli occhi pungenti ed infossati, accentuati dall'ombreggiatura dell'osso sopracciliare. Il quadro dà una sensazione di forza calma e di buonsenso, saggezza (in russo: sdravij smisl, здравый смысл). E qui, per smentire ma insieme confermare questo intento, basterebbe citare Dostoevskij e i suoi antieroi de "i Demoni", che già si affacciavano in Russia mettendo in discussione tutto, e preparando alla Rivoluzione. Ovvero che: нужно быть действительно великим человеком, чтобы суметь устоят даже против сдравого смысла- "bisogna essere uomini davvero grandi, per poter resistere persino al buonsenso".
"Allegoria dell'inverno ad immagine di un vecchio", Borovikovskij

copertina di "Aqualung", Jethro Tull
Ritratto di F.M. Dostoevskij, Perov
"Ivan il terribile e suo figlio Ivan", Repin
"Burlaki na Volge", Repin
"Burlaki na Volge", Repin (particolare di Kanin)
"Ritratto del pittore Myasoedov", Repin
"Mina Moiseev", Kramskoj
Analizziamone alcuni, a mio parere significativi.
"Allegoria dell'inverno a immagine di un vecchio"che si riscalda le mani vicino al fuoco è un quadro di Borovikovskij del 1804. Già qui cominciano ad emergere caratterizzazioni che esprimono agonia e povertà attraverso lo sguardo mendicante e le rughe di un anziano dagli abiti dismessi. Mi ricorda tanto il barbone di "Aqualung" dei Jethro Tull, descritto non solo dalle splendide parole della canzone, ma anche raffigurato nella copertina del disco, mentre si regge i lembi del cappotto, "eying up little girls with bad intents" (guardando ragazzine con cattive intenzioni). Con Borovikovskij, però, non ci si è ancora spinti oltre la tradizione: siamo nell'ambito della sublimazione dell'allegoria, che edulcora la realtà e ci dice che non dobbiamo spaventarci, perché quel vecchio è l'Inverno astratto, non esiste realmente.
Il passo avanti nella direzione del realismo arriva con un capolavoro del 1868: l'opera "Fomushka-sych"di Perov, che raffigura un contadino. In ogni piega della barba folta e scomposta, con arricciature che ricordano quelle delle sculture greco-romane raffiguranti satiri o fauni, possiamo cogliere la meticolosa precisione nella rappresentazione della complessità della persona raffigurata. La bocca è tesa all'ingiù, lo sguardo è penetrante con una punta arcigna, sofferente ma beffarda. L'uomo ci guarda e ci sfida, buttandoci in faccia, con la profondità del suo essere, tutta la semplice verità della sua storia. Questa muta e поразительная (termine intraducibile in italiano se non in: "che colpisce") capacità rivelatrice conferisce al contadino qualcosa di demoniaco, che riesce a toccare qualcosa dentro chi lo osserva, pur lasciando lo spettatore incapace di descrivere precisamente cosa. Non a caso Turgenev lo paragonò a Socrate.
Perov è anche autore del famoso ritratto di Dostoevskij, dove lo scrittore è raffigurato con le mani congiunte in un'espressione pensierosa, che si potrebbe dire colga il maestro nella drammaticità del suo atto creativo.
Repin, contemporaneamente a Perov, porta l'espressione dei suoi uomini del popolo ad un livello lirico. Celebre è il suo macabro quadro: "Ivan il terribile e suo figlio Ivan", in cui lo zar è ritratto nell'espressione di terrore, pentimento, sgomento e orrore che lo pervade, un attimo dopo aver ucciso suo figlio. Il quadro è magistrale, parla da sé. Commentare le sensazioni che lascia sarebbe superfluo e non gli renderebbe la dovuta giustizia. Interessante è lo studio per l'espressione di Ivan che Repin condusse, realizzando il ritratto del pittore Myasoedov, dallo sguardo allucinato. La straordinarietà dell'abilità del pittore è nel riuscire a conferire ai suoi ritratti sguardi estremamente forti, pur non indirizzandoli direttamente allo spettatore. Si sa che lo sguardo "in camera"è più diretto e fu la fortuna di innumerevoli dipinti e fotografie (si pensi alla Gioconda), ma qui la disperazione rivolta altrove è persino più efficace, perché permette un'empatia maggiore con il soggetto, poiché lo sguardo non ghermisce l'Io a cui il soggetto si rivolge, e lo lascia libero di immedesimarsi.
Sempre Repin, nel suo "burlaki na Volge"(battellieri sul Volga)- che si può ammirare a San Pietroburgo nel Museo Nazionale- realizza un'opera eccezionale perché contiene un ritratto. Nel quadro, 11 trasportatori vengono colti nel momento del lavoro- essi trainano, legati tutti insieme, la barca che si intravede dietro, a destra, avanzando a fatica con una gamba, le corde a far leva sul petto. Uno in particolare non si può non notare. Il volto simile a quello di un filosofo, il suo sguardo è imbronciato e insieme calmo, saggio, le sopracciglia aggrottate verso il basso, la gravità dell'espressione che porta e sopporta il peso fisico della barca, morale della vita. Si tratta di Kanin, uno dei battellieri che Repin incontrò nel suo viaggio sul Volga e che lo lasciò estasiato, poiché a suo avviso si distingueva da tutti gli altri: dalla "larga fronte intelligente", com'egli lo definisce nel suo scritto "Lontano-vicino", egli è "il culmine dell'epopea dei battellieri". Il quadro impressionò positivamente anche Dostoevskij, che scrisse che sfugge ai luoghi comuni, perché "fortunatamente, vi sono rappresentati battellieri, veri battellieri e nient'altro. Nessuno di essi nel quadro grida allo spettatore quanto è infelice, e fino a dove le classi più alte hanno indebitato il popolo".
Sulla stessa scia è infine il ritratto di Mina Moiseev di Kramskoj, del 1883. Qui nuovamente è dipinto un vecchio contadino rugoso con le braccia conserte, posizionato di 3 quarti, che solo ad una prima occhiata appare dimesso e fragile, poiché in realtà ha ampie spalle e un'espressione forte, si direbbe quasi sorrida sotto l'ampia barba. Non è sofferente. Appare saggio e consapevole, in quegli occhi pungenti ed infossati, accentuati dall'ombreggiatura dell'osso sopracciliare. Il quadro dà una sensazione di forza calma e di buonsenso, saggezza (in russo: sdravij smisl, здравый смысл). E qui, per smentire ma insieme confermare questo intento, basterebbe citare Dostoevskij e i suoi antieroi de "i Demoni", che già si affacciavano in Russia mettendo in discussione tutto, e preparando alla Rivoluzione. Ovvero che: нужно быть действительно великим человеком, чтобы суметь устоят даже против сдравого смысла- "bisogna essere uomini davvero grandi, per poter resistere persino al buonsenso".
"Allegoria dell'inverno ad immagine di un vecchio", Borovikovskij

copertina di "Aqualung", Jethro Tull
"Fomushka-sych", Perov
mercoledì 16 aprile 2014
Una valigia di ricordi
Si sente dire spesso: tenete fuori le vostre vicende autobiografiche dai vostri romanzi, se volete diventare dei bravi scrittori. In effetti, della propria vita privata non interessa a nessuno, e la scrittura dovrebbe prima di tutto interessare un pubblico universale.
Ebbene, Sergey Dovlatov se ne sarebbe del tutto fregato, di un simile consiglio. Avrebbe risposto tranquillamente che: "il narratore racconta come vivono le persone, il prosaico come dovrebbero vivere, lo scrittore per che cosa, esse vivano". Lui, dunque, non fu mai un vero scrittore ma piuttosto un narratore, perché nelle sue opere raccontava i suoi ricordi, la vita sua e delle persone intorno a lui per quello che accadeva, per ciò che era. Molti si chiederanno: chi diavolo è Dovlatov? Devo confessare che neppure io non conoscevo questo scrittore, nonostante in Russia sia al contrario molto noto, un classico ormai. Me l'ha consigliato un amico, che ringrazio. Di origine ebraica e nato ad Ufa, Dovlatov è emigrato in America dove è morto nel 1990. Il suo stile è realistico, cinico, ironico. Fu un grande ammiratore di Chekhov, a cui si ispira. I critici lo descrivono come credente in un'unica cosa: nella улыбка разума, il sorriso della ragione.
La sua opera più nota, che ho letto, è "La valigia". Il libro è strutturato i capitoli in maniera indipendente e di nominarli come un indumento; ognuno racconta un aneddoto autobiografico, un ricordo legato proprio ad un oggetto nella valigia del narratore. Abbiamo questo modo capitoli del tipo: l'abito a doppiopetto, la camicia di popeline.... Il tono è veloce, spoglio di qualsiasi particolareggiata descrizione. Il suo particolare humour è da un lato tipicamente ebraico perciò cinico ed irresistibile, dall'altra davvero "russo", nel senso che è pratico, spoglio di alambicchi e giri di parole: arriva dritto al segno.
Ci tengo a citare le frasi che ho preferito:
"Avendo uno stipendio alto, si può concedersi un lusso come la bonarietà."
"Non so cos'è la libertà- un concetto filosofico. Non mi interessa. Gli schiavi non si interessano di filosofia. Andare dove vuoi- questa è libertà!".
Si evince subito che la filosofia di Dovlatov è "minimalista", ma molto efficace. Descrive in maniera fedele e divertente la tipica vita da squattrinato durante l'Unione Sovietica, le tipiche abitudini russe, condite di ubriacature che provocano pugni e conseguenze ai limiti del reale, non senza una sfacciata critica alle stranezze e alla miseria del regime, filtrata dal suo humour. I suoi libri non vennero mai pubblicati durante l'URSS, e l'edizione del suo primo libro venne addirittura distrutta dal KGB. Tuttavia, se volete capire di più del mondo russo di quell'epoca, questo è un libro che fa per voi, proprio perché dice le cose come stanno. Un episodio tipo è quello in cui Dovlatov accompagna il fratello ad ottenere un prestito, e la moglie gli chiede di comprare con un rublo l'olio di semi di girasole. Naturalmente quel rublo verrà speso in vodka sotto l'insistenza del fratello, che nel frattempo, facendo a botte con un altro bevitore, riesce a scambiare furtivamente il suo vecchio cappello con quello nuovo dello sconosciuto. "Che mi importa dell'olio, se ora ho un nuovo cappello?"- biascica alla moglie Dovlatov, rincasato come sempre tardissimo ed in pessime condizioni.
Un episodio che mi ha colpito è quello degli scarponi. Viene narrato di come, all'inaugurazione di una statua in metropolitana- costruita da Dovlatov stesso e da altri poco sobri soggetti- egli, ritrovatosi seduto a cena con eminenze del governo, scorge sotto il tavolo gli scarponi del sindaco, che quest'ultimo si era tolto silenziosamente mentre intratteneva gli ospiti. Viene colto da un irrefrenabile, repentino ed inspiegabile desiderio di rubarli. E' un attimo: con nonchalance li infila nella sua sacca, e prosegue la cena fingendo indifferenza. Diverse sensazioni lo pervadono, fino al terrore quando il sindaco scopre dello scandalo e finge un malore pur di allontanare gli ospiti e non mostrarsi senza scarpe. Ho trovato l'episodio squisito non tanto per il suo esser buffo, ma perché quel genere di raptus improvvisi e privi di alcuna logica mi hanno ricordato certi momenti dell'infanzia o dell'adolescenza (e non solo!) in cui la tentazione- trovandosi per caso di fronte a qualcosa di proibito ed invitante- di compiere un gesto del tutto rischioso, è talmente forte da andare contro tutto. Qualcosa di esterno guida i nostri gesti meccanicamente, quasi come se il richiamo a trasgredire venisse da un quid al di fuori non soltanto della razionalità, ma persino della comprensione. Mai ci si sarebbe potuti immaginare di fare qualcosa di simile prima, né si potrebbe farlo fino all'esatto momento in cui il caso ci mette di fronte a quella possibilità- che diviene imperativo. C'è qualcosa di tragicomico in questo. Non si può evitare di rispondere a quella tentazione. E' in quell'esatto momento che ci trasformiamo in vittime di qualcosa che suonerebbe troppo sciocco per esser degno d'una spiegazione. Se ci coglieranno con le mani nel sacco, sarà la vergogna più totale, eppure, se potessimo tornare indietro, non potremmo che ripeterci: lo rifarei. Non perché sia stato divertente- anzi, a ripensarci quasi ne siamo imbarazzati- ma solo perché non avevamo alcuna scelta. E c'è da crederci, c'è da esser seri nel dire che a volte ad una cazz.. non c'è scampo.
Di questo e di altre sensazioni e pezzi di vita scriveva Dovlatov. Non scriveva di angeli né demoni, ma di gente comune come lo era lui, intrappolata tra i doveri e i desideri, tra la libertà di decidere cosa fare di se stessi e gli obblighi di sbarcare il lunario portando a casa qualche rublo; scriveva della vita in maniera concreta, di ciò che è nei suoi accadimenti, nel suo scorrere leggero, farsesco e privo di senso; narrava di "come le persone non riescono a vivere, restando allo stesso tempo persone libere". Dove sta, dunque, la salvezza in un mondo individualista in cui tutto è incentrato su come si riesca a rendere la vita accettabile, tramutare l'inferno interiore in paradiso? Secondo Dovlatov stesso, nel piacere delle relazioni, dello scambio verbale. Il racconto rivolto ad un pubblico è l'unica vera apertura dell'uomo individualista verso gli altri, verso l'universale. Dispiegando la propria vita in una prosa, cioè narrandola, essa stessa acquista senso e diviene condivisibile. Se Dostoevskij scriveva che la bellezza salverà il mondo, Dovlatov potrebbe rispondergli che lo farà il dialogo.
Ebbene, Sergey Dovlatov se ne sarebbe del tutto fregato, di un simile consiglio. Avrebbe risposto tranquillamente che: "il narratore racconta come vivono le persone, il prosaico come dovrebbero vivere, lo scrittore per che cosa, esse vivano". Lui, dunque, non fu mai un vero scrittore ma piuttosto un narratore, perché nelle sue opere raccontava i suoi ricordi, la vita sua e delle persone intorno a lui per quello che accadeva, per ciò che era. Molti si chiederanno: chi diavolo è Dovlatov? Devo confessare che neppure io non conoscevo questo scrittore, nonostante in Russia sia al contrario molto noto, un classico ormai. Me l'ha consigliato un amico, che ringrazio. Di origine ebraica e nato ad Ufa, Dovlatov è emigrato in America dove è morto nel 1990. Il suo stile è realistico, cinico, ironico. Fu un grande ammiratore di Chekhov, a cui si ispira. I critici lo descrivono come credente in un'unica cosa: nella улыбка разума, il sorriso della ragione.
La sua opera più nota, che ho letto, è "La valigia". Il libro è strutturato i capitoli in maniera indipendente e di nominarli come un indumento; ognuno racconta un aneddoto autobiografico, un ricordo legato proprio ad un oggetto nella valigia del narratore. Abbiamo questo modo capitoli del tipo: l'abito a doppiopetto, la camicia di popeline.... Il tono è veloce, spoglio di qualsiasi particolareggiata descrizione. Il suo particolare humour è da un lato tipicamente ebraico perciò cinico ed irresistibile, dall'altra davvero "russo", nel senso che è pratico, spoglio di alambicchi e giri di parole: arriva dritto al segno.
Ci tengo a citare le frasi che ho preferito:
"Avendo uno stipendio alto, si può concedersi un lusso come la bonarietà."
"Non so cos'è la libertà- un concetto filosofico. Non mi interessa. Gli schiavi non si interessano di filosofia. Andare dove vuoi- questa è libertà!".
Si evince subito che la filosofia di Dovlatov è "minimalista", ma molto efficace. Descrive in maniera fedele e divertente la tipica vita da squattrinato durante l'Unione Sovietica, le tipiche abitudini russe, condite di ubriacature che provocano pugni e conseguenze ai limiti del reale, non senza una sfacciata critica alle stranezze e alla miseria del regime, filtrata dal suo humour. I suoi libri non vennero mai pubblicati durante l'URSS, e l'edizione del suo primo libro venne addirittura distrutta dal KGB. Tuttavia, se volete capire di più del mondo russo di quell'epoca, questo è un libro che fa per voi, proprio perché dice le cose come stanno. Un episodio tipo è quello in cui Dovlatov accompagna il fratello ad ottenere un prestito, e la moglie gli chiede di comprare con un rublo l'olio di semi di girasole. Naturalmente quel rublo verrà speso in vodka sotto l'insistenza del fratello, che nel frattempo, facendo a botte con un altro bevitore, riesce a scambiare furtivamente il suo vecchio cappello con quello nuovo dello sconosciuto. "Che mi importa dell'olio, se ora ho un nuovo cappello?"- biascica alla moglie Dovlatov, rincasato come sempre tardissimo ed in pessime condizioni.
Un episodio che mi ha colpito è quello degli scarponi. Viene narrato di come, all'inaugurazione di una statua in metropolitana- costruita da Dovlatov stesso e da altri poco sobri soggetti- egli, ritrovatosi seduto a cena con eminenze del governo, scorge sotto il tavolo gli scarponi del sindaco, che quest'ultimo si era tolto silenziosamente mentre intratteneva gli ospiti. Viene colto da un irrefrenabile, repentino ed inspiegabile desiderio di rubarli. E' un attimo: con nonchalance li infila nella sua sacca, e prosegue la cena fingendo indifferenza. Diverse sensazioni lo pervadono, fino al terrore quando il sindaco scopre dello scandalo e finge un malore pur di allontanare gli ospiti e non mostrarsi senza scarpe. Ho trovato l'episodio squisito non tanto per il suo esser buffo, ma perché quel genere di raptus improvvisi e privi di alcuna logica mi hanno ricordato certi momenti dell'infanzia o dell'adolescenza (e non solo!) in cui la tentazione- trovandosi per caso di fronte a qualcosa di proibito ed invitante- di compiere un gesto del tutto rischioso, è talmente forte da andare contro tutto. Qualcosa di esterno guida i nostri gesti meccanicamente, quasi come se il richiamo a trasgredire venisse da un quid al di fuori non soltanto della razionalità, ma persino della comprensione. Mai ci si sarebbe potuti immaginare di fare qualcosa di simile prima, né si potrebbe farlo fino all'esatto momento in cui il caso ci mette di fronte a quella possibilità- che diviene imperativo. C'è qualcosa di tragicomico in questo. Non si può evitare di rispondere a quella tentazione. E' in quell'esatto momento che ci trasformiamo in vittime di qualcosa che suonerebbe troppo sciocco per esser degno d'una spiegazione. Se ci coglieranno con le mani nel sacco, sarà la vergogna più totale, eppure, se potessimo tornare indietro, non potremmo che ripeterci: lo rifarei. Non perché sia stato divertente- anzi, a ripensarci quasi ne siamo imbarazzati- ma solo perché non avevamo alcuna scelta. E c'è da crederci, c'è da esser seri nel dire che a volte ad una cazz.. non c'è scampo.
Di questo e di altre sensazioni e pezzi di vita scriveva Dovlatov. Non scriveva di angeli né demoni, ma di gente comune come lo era lui, intrappolata tra i doveri e i desideri, tra la libertà di decidere cosa fare di se stessi e gli obblighi di sbarcare il lunario portando a casa qualche rublo; scriveva della vita in maniera concreta, di ciò che è nei suoi accadimenti, nel suo scorrere leggero, farsesco e privo di senso; narrava di "come le persone non riescono a vivere, restando allo stesso tempo persone libere". Dove sta, dunque, la salvezza in un mondo individualista in cui tutto è incentrato su come si riesca a rendere la vita accettabile, tramutare l'inferno interiore in paradiso? Secondo Dovlatov stesso, nel piacere delle relazioni, dello scambio verbale. Il racconto rivolto ad un pubblico è l'unica vera apertura dell'uomo individualista verso gli altri, verso l'universale. Dispiegando la propria vita in una prosa, cioè narrandola, essa stessa acquista senso e diviene condivisibile. Se Dostoevskij scriveva che la bellezza salverà il mondo, Dovlatov potrebbe rispondergli che lo farà il dialogo.
giovedì 20 marzo 2014
NON CI PENSARE
Non è più il tempo di quel folle che si aggira
per il mercato e annuncia a gran voce: “Dio è morto!”. Perché il folle non
verrebbe neppure ascoltato. Perché Dio è morto da troppo tempo ormai, ed è
sepolto. E su questo, come su tutto il resto, tutto ciò che è spiacevole ed
imbarazzante, è meglio non soffermarsi troppo.
Non ci soffermiamo su un sacco di cose, che
fanno invece parte del nostro mondo. Ignoriamo una quantità incredibile di
informazioni a livello storico, geografico, culturale e politico, ed è una
scelta motivata. Ignoriamo nazioni intere, persino genocidi, se non riguardano
le nazioni di cui ci hanno parlato a scuola o all’università.
-L’ignoranza non è una colpa- dissi un
giorno, riferendomi al fatto che una mia ex collega dell’Uzbekistan non
conoscesse l’esistenza storica dell’Olocausto.
-Certo che lo è. Forse non lo è fino ai 18
anni, ma quando si è adulti, non conoscere diventa una scelta- mi rispose
un’amica.
Aveva ragione. Tuttavia, ci sono certe cose
che non è facile sapere, per chi vive chiuso all’interno di una realtà che
nasconde una visione più ampia dell’insieme degli accadimenti presenti e
passati. Ci sono cose che non è facile sapere per chi ha frequentato la scuola
dell’obbligo in un determinato luogo del globo terrestre- dove si predilige un
certo programma didattico, dove si studiano in maniera più approfondita
soltanto le storie di certi Paesi, “quelli che contano”.
-L’Occidente- andava ripetendo il mio
professore di Filosofia- è impregnato di una patina culturale che influenza la
mentalità, i pensieri, il linguaggio e l’informazione. Noi non possiamo
prescinderne, in quanto siamo nati in queste terre e siamo stati indottrinati
di questa visione del mondo. Il nostro substrato culturale è inalienabile, se
non tramite una profonda violenza contro il proprio passato e una determinata
ed efferata volontà di trascendersi.
E’ anche per questa ragione, che ho sempre
trovato affascinanti le mie trasferte verso Est. Le ho sempre considerate una
necessità di andare al di là del sistema culturale in cui sono cresciuta e che
mi influenza.
Alla luce di svariati viaggi con lunghe
permanenze in Russia ed Ucraina, posso dire che spostarsi già solo di quei
pochi km ad est apre un nuovo tipo di prospettiva. Apre uno scorcio su
mentalità che solo apparentemente sembrano simili alla nostra. Questi Paesi mi
hanno accolto, accarezzato o dato calci; spesso mi hanno fatto ridimensionare
l’idea che avevo di loro. Mi sono scagliata contro le loro rigidità
burocratiche- prima con l’ostinazione di chi non vuol trovar loro alcun
difetto, con l’entusiasmo di chi è un neofita della loro affascinante lingua,
poi con la rabbia e l’insofferenza di chi ne resta irrimediabilmente deluso.
Lavorare in Russia per gli europei è difficile, è un grosso salto. Le e-mail
non sono ancora un metodo di comunicazione lavorativa ritenuto utile (le
aziende controllano la posta elettronica una volta ogni 2-3 giorni se si è fortunati,
e quando rispondono, se lo fanno, di certo non conoscono l’uso del tasto
“rispondi a tutti”). La parola data, orale o persino scritta, non ha un grande
valore. Sembra che ovunque viga la regola del: ci sono regole che vanno
rispettate in modo ciecamente rigido, ma tutto ciò dipende da chi hai di
fronte. E’ come costruire ogni giorno, a poco a poco, un muro di certezze, di
proibizioni, di procedure, e poi vederlo di continuo sfaldarsi a seconda
dell’inserviente/operatore/direttore che si ha di fronte- a seconda del suo
umore, del suo tornaconto personale, della sua apertura mentale. Dopo alcuni
mesi, diventa straziante lottare per risparmiare qualche rublo alla mensa,
perché secondo la signora del giorno prima il piatto di sole patate e riso può
costare 100 rubli, mentre il suo collega il giorno dopo sostiene che “qualunque
cosa tu prenda, costa 300 rubli”. Dopo qualche tempo, alla rabbia subentra la
rassegnazione. Subentra la saggezza di constatare che ogni popolazione ha la
sua forma mentis, le sue idiosincrasie, e che- al di là del fatto che sia
sciocco in ogni caso generalizzare a tal punto- la Russia ha il peso della sua
storia alle spalle, della chiusura culturale durante il Comunismo e poi
dell’improvvisa apertura al capitalismo dagli anni Novanta. La Russia, per la
stragrande maggioranza, è avida, materialista, grezza e piuttosto ottusa. Se
l’Ucraina ha l’attenuante della miseria, che rende patetica e disperata ogni
lotta alla grivna di padroni di bilocali che sperano di diventar ricchi
ingannando qualche turista, la Russia commuove assai meno, perché delle
disparità economiche tra oligarchi e ceto medio ha fatto una bandiera. Eppure
la miseria s’insidia dietro ogni angolo, in ogni periferia, in ogni piccola
città della Siberia, in ogni scalcinata baracca del Caucaso. È una miseria
cieca perché non chiede aiuto né comprensione, perché non è aperta a diventare
ricchezza (sto parlando a livello umano e interiore, non certo soltanto
economico).
Lo ammetto, parlo da disillusa e idealista.
La Russia che sognavo era quella dei romanzi ottocenteschi che ho letto. Era
quella Russia melanconica, profonda e terribile, quella Russia grande per la
sua follia. Era la Russia che ancora traspare da certe cattedrali o certe
pièce, da certi discorsi di giovani o di professori. E’ la Russia che mi è
apparsa, impersonata da un vecchio, un giorno a San Pietroburgo. Il vecchio
stava seduto su un gradino, lungo il sentiero accanto alla Cattedrale di San
Nicola. Aveva lo sguardo, terribile e stralunato, di certi personaggi dei
dipinti di Repin. Fissava me, fissava il mondo e non fissava niente. Il suo sguardo stupito e rabbioso cercava di
non pensare, ma non vi riusciva; conteneva la pazzia della disperazione, della
disillusione, del sopravvivere. Era un vecchio pazzo in un mondo pazzo, sapeva
ogni cosa e forse non sapeva nulla, non pensava a niente, se non di aver
vissuto invano e di stenti- o forse pensando proprio a questo, comunicava
“l’indicibile”. Quel vecchio era la
Russia! Era proprio questo suo “sapere” contenuto nei suoi occhi, che mi dava
un brivido dentro, perché è quando mi trovo di fronte quel volto della Russia,
che sa qualcosa della sua infima grettezza come della sua straordinaria
grandezza, che la riconosco. Che le due immagini- quella delle mie congetture e
quella reale- vanno per un attimo, finalmente, a combaciare.
domenica 16 marzo 2014
La mia Ucraina
La prima cosa che vidi di Kiev fu il maidan. È una parola di origine araba che
significa piazza. È curioso che la piazza abbia un nome non russo, né ucraino. Il
maidan, con il con il suo obelisco bianco e oro e la sua imponente estensione,
non è particolarmente bello. È un’ampia piazza che non lascia senza fiato come
tante in Europa o in Russia; comunica qualcosa senza esser solenne. Fin dalla
mia prima gita a Kiev, mi parve cupa. Era grande, aperta, ma buia. C’erano
bancarelle che vendevano souvenir, baracchini con cibo o schede telefoniche. Comprai
una custodia per il passaporto da un vecchio signore. Era una piazza ruspante
con una punta di tristezza.
Quella piazza di recente si è tinta di
sangue, di tritolo e di rabbia.
Ricordo le passeggiate lungo Kreshatik; l’ampio
viale, i negozi, un tipico ristorante di cucina ucraina. L’ho vista tagliata
dal freddo e bruciata dall’afa. I turisti accalcati a vedere un giocoliere, un
porcellino d’india, un suonatore. In quelle zone del centro non si andava
spesso- era un luogo da domenica, da riposo, da camminate senza un senso.
Quel viale ora è assediato dai poliziotti e
coperto di cadaveri e candele.
All’hotel Ukraina prenotai alcune stanze
per la dirigenza della mia azienda. L’hotel Ucraina, vecchio casermone
sovietico con la moquette e le abat jour d’oro nelle camere. Un posto da
turisti, puttane e nostalgici.
Quell’albergo si è trasformato in una
postazione per cecchini. Evacuato, assediato, devastato dai proiettili.
La piazza maidan, proprio come le agorà del
passato, è oggi il luogo dell’insofferenza del popolo, e si sta rivelando ben
più pericolosa delle aspettative. Era già stata teatro di scontri durante la
guerra civile del 18-19, contesa dal nazionalista Petljura, dai bolscevichi e
dall’atamano Shoropadskij (come narrato ne La guardia bianca, il primo romanzo
di Bulgakov). La protesta oggi esplode nel sangue, perché al diavolo Gandhi, i
soldi non si ottengono con le parole. C’è chi dice che la posta in gioco è
l’Europa. La posta in gioco è molto più alta e complicata. I giornali russi
dipingono i manifestanti che vogliono entrare in Europa come fascisti, autori
di un golpe. Ma cos’è il fascismo, e il nazionalismo oggi? C’è qualcosa di
obsoleto, in queste etichette assolutiste. C’è, come sempre, qualcosa di cieco
ed ottuso nelle ideologie. Tra quei manifestanti c’erano donne, adolescenti, gente
dell’ovest, dove non c’è nulla da perdere perché non ci sono soldi né
industrie.
Kiev urla, scoppia, muore. Kiev diviene
strumento di potenze mondiali con scopi ben precisi. Divisa tra Europa e
Russia, non ha scelta: cadrà comunque preda di interessi politico- economici
che la schiacceranno, senza alcuna considerazione per la vita delle persone. Kiev
cerca d’esser indipendente dalla Russia, ma ne è impregnata: culturalmente,
architettonicamente, economicamente. Le origini delle due nazioni sono
strettamente legate: la parola “russo” deriva proprio dal “rus” medievale di Kiev (forse di origine normanna), il più antico
villaggio slavo organizzato, che raggiunse massima espansione intorno all’anno
1000. Dallo sfaldamento del “rus” si formarono 3 distinte etnie: ucraini,
bielorussi e russi. Il loro ceppo d’origine dunque è comune e non solo: proprio
Kiev fu il luogo di nascita e sviluppo della prima etnia russa. Nel corso degli
anni, si è creata una spaccatura tra Ucraina dell’est e dell’ovest, di tipo
economico ma anche a livello di mentalità: nelle città occidentali, dove
scarseggiano le opportunità di lavoro, c’è repulsione verso i russi e si parla
ucraino; gli ucraini di Kiev e della parte orientale, invece, dove c’è la ricca
zona della Crimea e del Donbass, sono filo-russi: molti di loro hanno origine
russa, addirittura non conoscono certi termini in ucraino. Usano la loro lingua
madre solo con certe persone, o all’università, oppure- cosa paradossale- con i
poliziotti- BERKUT, le aquile d’oro. Quegli stessi che ora cercano di
ristabilire l’ordine con il disordine, con il fuoco- così mi dicono gli amici
di Kiev, intimando di non credere in nessun modo ai giornali russi, che
osannano l’operato della polizia; di contro, le televisioni russe mostrano di
continuo dossier su focolai di fascismo e violenza dell’Ucraina dell’ovest. A
quale propaganda credere? Già il fatto che ancora oggi si possa parlare di propaganda
mediatica è decisamente allarmante.
Lasciamo per un attimo da parte la
questione della Crimea, pomo della discordia, pretesto per rinnovare antiche
supremazie e nuovi progetti economici.
Mettiamo momentaneamente da parte i
nazionalisti, gli estremisti, i filo fascisti- che altro non sono che strumenti
degli oligarchi o delle super potenze, mercenari sovvenzionati, invasati
guerrafondai, o semplicemente disperati. Prendiamo ragazzi ucraini di
vent’anni, esattamente come i nostri, dagli occhi vivaci e dai modi gentili;
ragazzi che alla loro età sono più seri ed affidabili di gente italiana con il
doppio dei loro anni. Ragazzi di Kiev, con famiglie di ceto medio-
chi più, chi meno abbiente, ma tutti studenti. Hanno percorso 1500 km con le loro
automobili, dono dei genitori, che trattano in maniera maniacalmente attenta
perché una semplice patente ha dato loro l’occasione di un lavoro in
Russia come autisti per un’azienda internazionale; ragazzi con l’I Phone e l’I
Pad, che saltano di gioia a percepire il loro primo stipendio di 5000 grivne (500
euro). Ho colto nelle loro parole l’attaccamento alla loro terra, alle loro
radici, e ciò non mi è parso “nazionalismo”, ma qualcosa che non è facile da
comprendere per noi italiani, la cui unica patria è la partita di calcio, la
birra al sabato sera, la casa con il cane e il giardino. Dicono che il concetto
di nazione si sta estinguendo, ma l’uomo apolide, cosmopolita, perso nel globo
è destabilizzante. Bisogna essere davvero forti per volersi smarrire nella
globalità. Ho sentito i ragazzi di Kiev affermare che quando li
chiameranno a servizio militare non avranno esitazione, perché è giusto
combattere per la loro terra. Protestano contro la corruzione della classe
politica. Sono stanchi della dipendenza dai “moskali” (come in ucraino e polacco chiamano i russi). Ritengono
che l’Ucraina debba risolvere i suoi problemi interni innanzitutto, e da sola,
senza l’intervento di nessun’altra nazione. Li ho ascoltati sognare di vivere
bene come in Europa, entusiasmarsi per un lavoro internazionale tramite cui
possono parlare inglese, conoscere persone di ogni paese. Come trovare il cuore
di dir loro che se Kiev entrasse in Europa, patirebbe la fame più di oggi? Il servo diverrà un
giorno padrone? Forse resterà servo- dell’una o dell’altra potenza, poco cambia.
Forse troverà una nuova strada. Forse si spaccherà internamente in due parti. Nella
peggiore delle ipotesi, sarà la miccia che farà esplodere conflitti di ampie
proporzioni. Stare dalla parte degli americani o dei russi dipende solo ciò che
è creduto maggiormente utile ai propri interessi, ma nessuno è libero. L’aveva
capito il buon vecchio Faber, che “bisogna farne di strada, per diventare così
coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.
Tutto ciò che mi sovviene, al di là di
considerazioni politiche e banalità di scarso livello, è proprio la tristezza
del sogno europeo che vive nelle menti dei giovani, di chi spera in una vita
migliore. Come sempre il popolo è la vittima, che tra il caos e il terrore,
s’aggrappa ad un pezzo di stoffa a strisce- poco importa se sia la bandiera
russa o ucraina. A commuovermi è quella speranza che si percepisce tra le loro
domande entusiastiche sull'Europa, dove il clima è migliore, l’acqua è
potabile, tutti hanno ottimo cibo a poco prezzo, case pulite e spaziose, dove gli esami universitari non si comprano.
Persino di Donetsk, la città più "russa" di tutta l’Ucraina, la sensazione
più vivida che mi è rimasta è il calore e l’entusiasmo delle persone del luogo,
nel vedere arrivare nella loro città un’orda festosa di europei, nei quali
vedevano la possibilità di un lavoro fuori dal loro paese.
Quello che mi fa stringere il cuore è
figurarmi, tra i cliché dell’imminente guerra, del fascismo, della Russia o
dell’America tiranna, un’Ucraina schiacciata e sanguinante, che vomita miseria
e che otterrà miseria; perché io, quest’Ucraina, l’ho vista e l’ho vissuta,
l’ho amata attraverso le sue persone, e mi ha accompagnato, tra la sua umiltà e
avidità, nelle sue illusioni e nelle sue sofferenze, ospitando le mie scoperte
e le mie delusioni. La mia è un’empatia che sgorga dal cuore e non dal
cervello, perché se la Russia si può amare od odiare, se nella Russia si può
solo credere, l’Ucraina si può solo capire.
martedì 4 febbraio 2014
Un dono rosso
Krasnodar in russo significa "dono rosso" o "dono bello". Il termine "krasnij", rosso, anticamente significava "bello"- e da qui l'attuale termine per bello, cioè "krasivij". In effetti, al di là delle implicazioni politiche che si possano dare al colore rosso (e che forse hanno determinato il cambiamento di nome alla città negli anni Venti) trovo che il parallelo nella lingua russa tra "rosso" e "bello" sia davvero azzeccato. Le tinte rosse, in tutte le loro gradazioni, sono sempre quelle che catturano di più lo sguardo, che intrigano e seducono, nel bene e nel male. Rossa è la mela del peccato, tremendamente invitante, rosso è il sangue che è la base della vita del corpo, rosse sono le labbra seducenti delle donne, rossa è la cera lacca delle promesse, le carte regalo, i rubini. Il rosso è vitale, drammatico, intenso, violento, in una parola è bello- in un senso non alla Kant, di bello come qualcosa che non dà emozioni e che non ha concetto, ma nel senso più contemporaneo di struggentemente bello, bello da morire, bello da uccidere, bello da desiderare. E' il bello, appunto, russo, pregno di quello spirito.
Krasnodar non è particolarmente bella, ma la sua bellezza sicuramente appartiene al concetto di "rosso". Krasnodar è una città russa assai conforme all'immagine preesistente nei miei stereotipi. Ricorda anche le città ucraine. Ha tipiche case dal tetto spiovente e mi ha accolto ricoperta di neve. L'ho vista dai vetri dei finestrini dei taxi, mentre io sfuggivo a lei, o lei a me, e sono riuscita a fermare qualche immagine della sua bellezza rossa. La bellezza di una piazza del centro piuttosto grande, bianca e nera, striata di alberi e neve, come un corallo; del ghiaccio per le strade che ti fa quasi cadere a terra; la desolazione industriale dei suoi dintorni (perché il centro finisce quasi subito, e cominciano le case di legno, le fabbriche che sbuffano fumo, le macchine spente e congelate sotto i portoni, costellate di stalattiti) è quasi bella, in un senso drammatico, deprimente, terribile, violentemente privo di senso e senza alcuna redenzione. Questo è l'inverno russo che cercavo, che a Sochi non ho trovato e non troverò mai. Quello squallore e grigiore bianco delle strade sporche di cumuli di neve, ghiaccio e fango è "rosso"; quell'aria gelida che ti si getta nelle narici come una cascata di fatalità è decisamente "rossa".
Lascio parlare le fotografie di una Krasnodar che ho cercato di riempire non solo di rosso, ma di tutti i colori che mi ha suscitato nell'immaginazione.
Krasnodar non è particolarmente bella, ma la sua bellezza sicuramente appartiene al concetto di "rosso". Krasnodar è una città russa assai conforme all'immagine preesistente nei miei stereotipi. Ricorda anche le città ucraine. Ha tipiche case dal tetto spiovente e mi ha accolto ricoperta di neve. L'ho vista dai vetri dei finestrini dei taxi, mentre io sfuggivo a lei, o lei a me, e sono riuscita a fermare qualche immagine della sua bellezza rossa. La bellezza di una piazza del centro piuttosto grande, bianca e nera, striata di alberi e neve, come un corallo; del ghiaccio per le strade che ti fa quasi cadere a terra; la desolazione industriale dei suoi dintorni (perché il centro finisce quasi subito, e cominciano le case di legno, le fabbriche che sbuffano fumo, le macchine spente e congelate sotto i portoni, costellate di stalattiti) è quasi bella, in un senso drammatico, deprimente, terribile, violentemente privo di senso e senza alcuna redenzione. Questo è l'inverno russo che cercavo, che a Sochi non ho trovato e non troverò mai. Quello squallore e grigiore bianco delle strade sporche di cumuli di neve, ghiaccio e fango è "rosso"; quell'aria gelida che ti si getta nelle narici come una cascata di fatalità è decisamente "rossa".
Lascio parlare le fotografie di una Krasnodar che ho cercato di riempire non solo di rosso, ma di tutti i colori che mi ha suscitato nell'immaginazione.
venerdì 24 gennaio 2014
10 luoghi comuni sulla Russia- cos'hanno di vero
Questo articolo ha molto del Vanity Fair. Lo ammetto è parecchio frivolo, ma ogni tanto concedetemelo, che in questo blog sono fin troppo seria.
Sulla Russia se ne dicono e se ne pensano. Ne parla moltissimo chi c'è stato, ma anche chi non c'è mai stato ha sempre da dire la sua- e a volte c'azzecca, per sentito dire. Vediamo che cosa c'è di vero e cosa no nei luoghi comuni più comuni- perdonate la ripetizione.
1) LA RUSSIA è TRISTE e SQUALLIDA. Dipende innanzitutto di che Russia stiamo parlando. Mosca e San Pietroburgo, naturalmente, non sono la Russia. Sono la parte migliore, più all'avanguardia, bella, turistica, popolata dell'intera nazione, la quale come sapete però è gigantesca. Diciamo che c'è qualcosa di estremamente triste nelle periferie russe o di paesi dell'ex Unione Sovietica. Quella tristezza accompagna anche centri più grandi, specialmente d'inverno. I tipici casermoni con il giardino interno dal parco giochi sgangherato ed arrugginito sono tristi, non c'è nulla da fare. Certe mense sono tristi, certi appartamenti spogli. Certe vecchie signore che vendono ortaggi all'ingresso delle metropolitane sono tristissime. Tutti i mendicanti che si vedono ad ogni angolo e cantano senza un braccio lo sono. Personalmente mi piace quella tristezza russa, è il suo carattere e ciò che la rende così profonda e drammatica. Mi rendo conto però che non tutti la vedano come me.
2) LA CUCINA RUSSA e' PESSIMA. Anche in questo caso, il luogo comune ha del vero, perché abituati alla nostra ricca cucina italiana potremmo rimanere un po' delusi da certe proposte russe. Rimando ad un post precedente in cui ho parlato diffusamente dell'argomento per maggiori dettagli, qui aggiungo solo che si tratta di una cucina nordica non particolarmente variegata ma con elementi molto interessanti. Ottimo salmone e pesce secco in generale, ottime zuppe per chi le ama, cultura della patata in tutte le sue forme (da provare il fast food Kroshka Kartoshka dove una patata diventa un panino, la protagonista assoluta da guarnire a propria scelta con diversi "toppings", da verdure a panna acida, salumi, salse, formaggio), strepitoso pane nero aromatico e frutta secca, ottimi funghi, pelmeni (ravioli ripieni) e piroshki (sfoglie ripiene). Attenti ad aglio e cipolla se non li digerite. Del caviale non parlo neppure, troppo ovvio. Ecco, una cosa che a mio avviso è davvero desolante sono i dolci. Hanno un'aria sempre stantia, poca scelta, dimenticate pasticceria francese. La cioccolata confezionata invece non è male, così come i biscotti.
3) I RUSSI NON SORRIDONO MAI. Sicuramente il loro modo di fare, e anche la loro gestualità, è diversa dalla nostra. Non gesticolano tanto come noi italiani, sono più composti, meno rumorosi, e sorridono meno, ma quest'ultima è un'affermazione troppo generale. Forse anticamente era così, perché il sorriso non era qualcosa da dispensare a chiunque, ma oggi s'incontra molto spesso personale sorridente ed aperto. Mi sono imbattuta nei più grandi sorrisi della mia vita di cui proprio i russi erano gli autori. Inoltre anche qui c'è da distinguere tra russi e russi. Ci sono moltissime etnie, influenze culturali di popoli confinanti, e molti di questi popoli sono estremamente aperti e "caldi", anche più di noi italiani. Nel Caucaso ad esempio la cultura è mediterranea, con influenze armene, georgiane, turche. Inoltre i russi sono molto ospitali. Se si entra in confidenza con loro sono pronti a dare tutto, offrire ogni cosa e diventano persino invadenti da quanto sono aperti. A cena nelle tipiche famiglie russe, sembra di essere nel sud Italia: tavola riccamente imbandita e i padroni di casa che si offendono se non bevete e mangiate ciò che offrono.
Molti amici e amiche russe che ho sono tra le persone più generose e gradevoli mai conosciute. Riempiono di regali e piccoli pensieri e hanno sempre attenzioni particolari per chi reputano amico. Poi possono scomparire per mesi o anni, ma questa è un'altra storia. Quando li rivedi sono sempre le stesse vecchie canaglie sorridenti che hai lasciato!
4) IN RUSSIA FA FREDDISSIMO. Certo d'inverno in quasi tutte le città non si può dire certo che faccia caldo. La temperatura è quasi sempre sotto lo zero fino anche a meno quaranta gradi in Siberia, gli inverni sono lunghissimi, la luce del giorno dura pochissimo. Però anche in questo caso stiamo parlando di un territorio immenso. Ci sono zone dove gli inverni non sono affatto insostenibili, la più rinomata per questa ragione è proprio Sochi, dove il mare e le montagne mitigano il clima e l'inverno è come a Milano se non più caldo. A parte questo, è un freddo generalmente più secco e sopportabile, e i luoghi sono attrezzati a sostenerlo. Ogni ambiente al chiuso è fortemente riscaldato, ogni bar pullula di the e bevande calde, e tutto è organizzato in modo da stare all'aperto il meno tempo possibile. Si possono fermare le macchine per strada se non si trova un taxi, e ovunque ci sono sottopassaggi pedonali che a volte rivelano interi centri commerciali sotterranei. Così che neppure si deve uscire dal metrò per andare a fare compere. Aggiungerei che il vero freddo che copre di neve le cupole delle chiese e di ghiaccio la Neva di Pietroburgo vale la pena d'essere esperito.
5) LA RUSSIA è PERICOLOSA. Dunque, se a Mosca si gira di notte da soli, ubriachi in zone poco raccomandabili e carichi di soldi si, lo è- ma si è anche un po' cretini, con tutto il rispetto. Come qualunque posto del mondo, qualunque grande metropoli, bisogna fare attenzione. Mantenendo tutti gli accorgimenti necessari ed evitando avventure rischiose, non la trovo più minacciosa di altri posti. La gente a Mosca ad esempio ama passeggiare la sera in centro d'estate e l'atmosfera è tranquilla, rilassata e magica. I luoghi turistici e centrali sono in genere sempre sorvegliati dalla polizia. Che la polizia sia corrotta è fuori discussione e questo è un capitolo a parte, ma il suo dovere è comunque tenuta a farlo. Magari allungando qualche rublo in più, giusto così per il servizio.
6) I RUSSI SONO SGARBATI e PACCHIANI. In molti casi questo è vero. Non sono raffinatissimi, né ad alti, né a bassi livelli. Il luogo comune è vero. Spesso hanno qualcosa di rozzo, che parte dal look per arrivare al tono, al modo di fare, alla gestualità, i gusti. Spesso non rispettano le code e passano davanti- anche se in Russia le code ci sono dappertutto, quindi armatevi di pazienza. Sono abituati a farle dai tempi dell'Unione Sovietica, dove la gente sposata raccontava di aver conosciuto il proprio marito in coda! Se urtano non chiedono scusa. In metropolitana a Mosca detesto che quando escono spingono avanti le pesanti porte a vetri che danno sulla strada e, noncuranti, le lasciano ricadere, senza guardare chi si sta accingendo dietro di loro ad uscire. Ho rischiato un paio di volte il trauma cranico. Tutto ciò va interpretato spesso come una diversità culturale, in alcuni casi invece dipende unicamente dal caso- gli str...ci sono dappertutto. Tralascio tutto l'ovvio discorso sugli arricchiti pacchiani che girano in Ferrari e vengono a Milano o a Londra a spendere milioni da Prada o Armani. Si sa che è così, e ci si ride anche sopra.
7) IN RUSSIA NIENTE è GRATIS. Verissimo. Se vuoi qualcosa, devi pagare. Questa è la filosofia. Questo materialismo della nuova Russia post-comunista ha una sua forza, perché dà pane al pane e vino al vino- certamente solo a vantaggio di chi ha entrambi. L'unico lato positivo, è che quantomeno le cose sono chiare fin da subito e senza ipocrisia. Sei per strada e devi andare in bagno? Paghi. Dimenticatevi la parola "happy hour". Non c'è nulla di offerto nei luoghi pubblici. Non ti dò niente per niente, neanche le cure mediche. Sei malato e ti portano in ospedale? Devi comprarti le garze e le siringhe. Anche l'acqua. Hai bisogno dell'ambulanza? Se allunghi qualche rublo per la benzina vedrai che arriva prima. La polizia deve intervenire? Meglio se ricarichi il telefono a uno di loro, sarà più interessato al tuo caso. Tutto ciò è splendido, per chi i soldi ce li ha. Per tutti gli altri, che mendichino per strada o muoiano di freddo per le strade pieni d'alcool. Altro che madre Russia. Matrigna.
8) LE DONNE RUSSE SONO BELLISSIME E ANCHE MOLTO FACILI. Per dono della loro etnia, alimentazione o quant'altro, molte donne dell'est hanno una struttura esile, bellissime gambe e occhi incredibili (dal taglio al colore), e questo è fuori discussione. Attenzione però a rivedere le stesse dopo i 40. Irriconoscibili e allargate, vestite come vecchie zie. Diciamo che in particolare la vecchia generazione è impietosa con le donne sopra i 40, che ne dimostrano 60 e hanno il look di una di 80. Ultimamente stanno cambiando e tenendo più al loro look e alla loro salute, si stanno emancipando e ciò le rende più belle e simili alle europee quando non sono più giovanissime, ma la strada è ancora lunga. Indiscutibilmente, comunque, le giovani russe sono bellissime (in media, ovviamente, con migliaia di eccezioni come è normale) e soprattutto molto curate, il che aiuta. L'abbigliamento da cubista sicuramente le rende anche più accessibili agli occhi degli allupati turisti europei. Nella loro cultura, essere curate da capo a piedi, sempre su tacchi alti, con pettinature elaborate e manicure a volte eccessiva è un segno di rispetto- verso l'uomo in primo luogo, ma anche verso se stesse e la propria voglia di emanciparsi. Che poi la bellezza sia il mezzo più semplice per raggiungere i propri scopi, le russe lo sanno bene e non lo nascondono di certo. Generalmente sono poco sognatrici, hanno i piedi ben piantati a terra e obbiettivi chiari: fare una bella vita. Sarà un retaggio del comunismo, vedetela come vi pare ma le giovani russe sono tutt'altro che ingenue e per nulla sciocche. Trovare un uomo benestante e allargare i propri orizzonti è la loro priorità e non hanno difficoltà a realizzarla. Che molti occidentali approfittino di questa situazione, è evidente. Cosa c'è di male in un do ut des? Quando si gioca a carte scoperte, non c'è molto di cui parlare!
9) GLI UOMINI RUSSI SONO BRUTTI E ALCOLIZZATI. Molti russi non hanno un aspetto affascinante, questo è vero. Sarà l'impietoso taglio di capelli, sarà la stazza, o i modi di fare, ma raramente ci si imbatte in un Richard Gere in American Gigolò. Mi permetto però di sottolineare non poche eccezioni anche a questo luogo comune, ovvero, a correggerlo aggiungendo un corollario: la maggior parte degli uomini russi non è affascinante, ma quando un russo è bello, è davvero notevole. Quelli belli infatti hanno l'altezza, la prestanza e gli occhi degli scandinavi, ma qualcosa addirittura in più, forse un'espressione più interessante e tenebrosa, forse l'aria meno slavata. Insomma, sono davvero ammirevoli. Riguardo alla faccenda dell'alcool, che ve lo dico a fare che per tradizione culturale in Russia si beve. Si pasteggia a vodka (meglio ancora a samagon, grappa artigianale davvero ottima) ma sempre mangiando qualcosa, ci si siede a laute tavole e ci si alza dopo svariate ore e barcollando. Questo è ciò che dice la tradizione. Ai tempi dell'Unione Sovietica l'alcool era l'unica via di sopravvivenza. I tempi però sono cambiati e anche se ci sono molti strascichi di quel periodo, le nuove generazioni sono più savie dei loro genitori e nonni. Conosco moltissimi ragazzi e ragazze totalmente astemi o comunque molto seri per quanto riguarda l'alcool; neanche un goccio di birra se sono al volante, oppure si ad una birra con gli amici, ma senza esagerare. Senza contare che molti russi sono mussulmani, e tanti anche osservanti. Insomma in questo caso mi permetto di sfatare il mito dell'alcolismo dilagante. Poi certo, quando vai in giro con l'agente immobiliare a vedere appartamenti puoi trovare nell'androne la "sorpresa" di un buon uomo giacente a terra in stato confusionale alle 3 del pomeriggio, ma siamo in Russia mica per niente. Altrimenti, come meta consiglio il Tibet o Dubai, per evitare episodi di questo genere.
10) LA PIAZZA ROSSA NON è NIENTE DI CHE. C'è da dire che gli appassionati della Russia si dividono in fan di Mosca e di San Pietroburgo. Io sono di parte perché appartengo- non s'era capito?- alla prima categoria. Lo ammetto. Ammetto anche che, quando la riempiono di orpelli, piste di pattinaggio, palchi per concerti e parate è difficile ammirarne la grandezza e la profondità, ma vi prego, non toccatemela. Io trovo sia eccezionale, e a questo proposito scrissi un suo elogio, tratto da un mio romanzo non pubblicato, che intendo inserire qui in versione integrale. E con questo concludo in bellezza.
Elogio alla Piazza Rossa
Sulla Russia se ne dicono e se ne pensano. Ne parla moltissimo chi c'è stato, ma anche chi non c'è mai stato ha sempre da dire la sua- e a volte c'azzecca, per sentito dire. Vediamo che cosa c'è di vero e cosa no nei luoghi comuni più comuni- perdonate la ripetizione.
1) LA RUSSIA è TRISTE e SQUALLIDA. Dipende innanzitutto di che Russia stiamo parlando. Mosca e San Pietroburgo, naturalmente, non sono la Russia. Sono la parte migliore, più all'avanguardia, bella, turistica, popolata dell'intera nazione, la quale come sapete però è gigantesca. Diciamo che c'è qualcosa di estremamente triste nelle periferie russe o di paesi dell'ex Unione Sovietica. Quella tristezza accompagna anche centri più grandi, specialmente d'inverno. I tipici casermoni con il giardino interno dal parco giochi sgangherato ed arrugginito sono tristi, non c'è nulla da fare. Certe mense sono tristi, certi appartamenti spogli. Certe vecchie signore che vendono ortaggi all'ingresso delle metropolitane sono tristissime. Tutti i mendicanti che si vedono ad ogni angolo e cantano senza un braccio lo sono. Personalmente mi piace quella tristezza russa, è il suo carattere e ciò che la rende così profonda e drammatica. Mi rendo conto però che non tutti la vedano come me.
2) LA CUCINA RUSSA e' PESSIMA. Anche in questo caso, il luogo comune ha del vero, perché abituati alla nostra ricca cucina italiana potremmo rimanere un po' delusi da certe proposte russe. Rimando ad un post precedente in cui ho parlato diffusamente dell'argomento per maggiori dettagli, qui aggiungo solo che si tratta di una cucina nordica non particolarmente variegata ma con elementi molto interessanti. Ottimo salmone e pesce secco in generale, ottime zuppe per chi le ama, cultura della patata in tutte le sue forme (da provare il fast food Kroshka Kartoshka dove una patata diventa un panino, la protagonista assoluta da guarnire a propria scelta con diversi "toppings", da verdure a panna acida, salumi, salse, formaggio), strepitoso pane nero aromatico e frutta secca, ottimi funghi, pelmeni (ravioli ripieni) e piroshki (sfoglie ripiene). Attenti ad aglio e cipolla se non li digerite. Del caviale non parlo neppure, troppo ovvio. Ecco, una cosa che a mio avviso è davvero desolante sono i dolci. Hanno un'aria sempre stantia, poca scelta, dimenticate pasticceria francese. La cioccolata confezionata invece non è male, così come i biscotti.
3) I RUSSI NON SORRIDONO MAI. Sicuramente il loro modo di fare, e anche la loro gestualità, è diversa dalla nostra. Non gesticolano tanto come noi italiani, sono più composti, meno rumorosi, e sorridono meno, ma quest'ultima è un'affermazione troppo generale. Forse anticamente era così, perché il sorriso non era qualcosa da dispensare a chiunque, ma oggi s'incontra molto spesso personale sorridente ed aperto. Mi sono imbattuta nei più grandi sorrisi della mia vita di cui proprio i russi erano gli autori. Inoltre anche qui c'è da distinguere tra russi e russi. Ci sono moltissime etnie, influenze culturali di popoli confinanti, e molti di questi popoli sono estremamente aperti e "caldi", anche più di noi italiani. Nel Caucaso ad esempio la cultura è mediterranea, con influenze armene, georgiane, turche. Inoltre i russi sono molto ospitali. Se si entra in confidenza con loro sono pronti a dare tutto, offrire ogni cosa e diventano persino invadenti da quanto sono aperti. A cena nelle tipiche famiglie russe, sembra di essere nel sud Italia: tavola riccamente imbandita e i padroni di casa che si offendono se non bevete e mangiate ciò che offrono.
Molti amici e amiche russe che ho sono tra le persone più generose e gradevoli mai conosciute. Riempiono di regali e piccoli pensieri e hanno sempre attenzioni particolari per chi reputano amico. Poi possono scomparire per mesi o anni, ma questa è un'altra storia. Quando li rivedi sono sempre le stesse vecchie canaglie sorridenti che hai lasciato!
4) IN RUSSIA FA FREDDISSIMO. Certo d'inverno in quasi tutte le città non si può dire certo che faccia caldo. La temperatura è quasi sempre sotto lo zero fino anche a meno quaranta gradi in Siberia, gli inverni sono lunghissimi, la luce del giorno dura pochissimo. Però anche in questo caso stiamo parlando di un territorio immenso. Ci sono zone dove gli inverni non sono affatto insostenibili, la più rinomata per questa ragione è proprio Sochi, dove il mare e le montagne mitigano il clima e l'inverno è come a Milano se non più caldo. A parte questo, è un freddo generalmente più secco e sopportabile, e i luoghi sono attrezzati a sostenerlo. Ogni ambiente al chiuso è fortemente riscaldato, ogni bar pullula di the e bevande calde, e tutto è organizzato in modo da stare all'aperto il meno tempo possibile. Si possono fermare le macchine per strada se non si trova un taxi, e ovunque ci sono sottopassaggi pedonali che a volte rivelano interi centri commerciali sotterranei. Così che neppure si deve uscire dal metrò per andare a fare compere. Aggiungerei che il vero freddo che copre di neve le cupole delle chiese e di ghiaccio la Neva di Pietroburgo vale la pena d'essere esperito.
5) LA RUSSIA è PERICOLOSA. Dunque, se a Mosca si gira di notte da soli, ubriachi in zone poco raccomandabili e carichi di soldi si, lo è- ma si è anche un po' cretini, con tutto il rispetto. Come qualunque posto del mondo, qualunque grande metropoli, bisogna fare attenzione. Mantenendo tutti gli accorgimenti necessari ed evitando avventure rischiose, non la trovo più minacciosa di altri posti. La gente a Mosca ad esempio ama passeggiare la sera in centro d'estate e l'atmosfera è tranquilla, rilassata e magica. I luoghi turistici e centrali sono in genere sempre sorvegliati dalla polizia. Che la polizia sia corrotta è fuori discussione e questo è un capitolo a parte, ma il suo dovere è comunque tenuta a farlo. Magari allungando qualche rublo in più, giusto così per il servizio.
6) I RUSSI SONO SGARBATI e PACCHIANI. In molti casi questo è vero. Non sono raffinatissimi, né ad alti, né a bassi livelli. Il luogo comune è vero. Spesso hanno qualcosa di rozzo, che parte dal look per arrivare al tono, al modo di fare, alla gestualità, i gusti. Spesso non rispettano le code e passano davanti- anche se in Russia le code ci sono dappertutto, quindi armatevi di pazienza. Sono abituati a farle dai tempi dell'Unione Sovietica, dove la gente sposata raccontava di aver conosciuto il proprio marito in coda! Se urtano non chiedono scusa. In metropolitana a Mosca detesto che quando escono spingono avanti le pesanti porte a vetri che danno sulla strada e, noncuranti, le lasciano ricadere, senza guardare chi si sta accingendo dietro di loro ad uscire. Ho rischiato un paio di volte il trauma cranico. Tutto ciò va interpretato spesso come una diversità culturale, in alcuni casi invece dipende unicamente dal caso- gli str...ci sono dappertutto. Tralascio tutto l'ovvio discorso sugli arricchiti pacchiani che girano in Ferrari e vengono a Milano o a Londra a spendere milioni da Prada o Armani. Si sa che è così, e ci si ride anche sopra.
7) IN RUSSIA NIENTE è GRATIS. Verissimo. Se vuoi qualcosa, devi pagare. Questa è la filosofia. Questo materialismo della nuova Russia post-comunista ha una sua forza, perché dà pane al pane e vino al vino- certamente solo a vantaggio di chi ha entrambi. L'unico lato positivo, è che quantomeno le cose sono chiare fin da subito e senza ipocrisia. Sei per strada e devi andare in bagno? Paghi. Dimenticatevi la parola "happy hour". Non c'è nulla di offerto nei luoghi pubblici. Non ti dò niente per niente, neanche le cure mediche. Sei malato e ti portano in ospedale? Devi comprarti le garze e le siringhe. Anche l'acqua. Hai bisogno dell'ambulanza? Se allunghi qualche rublo per la benzina vedrai che arriva prima. La polizia deve intervenire? Meglio se ricarichi il telefono a uno di loro, sarà più interessato al tuo caso. Tutto ciò è splendido, per chi i soldi ce li ha. Per tutti gli altri, che mendichino per strada o muoiano di freddo per le strade pieni d'alcool. Altro che madre Russia. Matrigna.
8) LE DONNE RUSSE SONO BELLISSIME E ANCHE MOLTO FACILI. Per dono della loro etnia, alimentazione o quant'altro, molte donne dell'est hanno una struttura esile, bellissime gambe e occhi incredibili (dal taglio al colore), e questo è fuori discussione. Attenzione però a rivedere le stesse dopo i 40. Irriconoscibili e allargate, vestite come vecchie zie. Diciamo che in particolare la vecchia generazione è impietosa con le donne sopra i 40, che ne dimostrano 60 e hanno il look di una di 80. Ultimamente stanno cambiando e tenendo più al loro look e alla loro salute, si stanno emancipando e ciò le rende più belle e simili alle europee quando non sono più giovanissime, ma la strada è ancora lunga. Indiscutibilmente, comunque, le giovani russe sono bellissime (in media, ovviamente, con migliaia di eccezioni come è normale) e soprattutto molto curate, il che aiuta. L'abbigliamento da cubista sicuramente le rende anche più accessibili agli occhi degli allupati turisti europei. Nella loro cultura, essere curate da capo a piedi, sempre su tacchi alti, con pettinature elaborate e manicure a volte eccessiva è un segno di rispetto- verso l'uomo in primo luogo, ma anche verso se stesse e la propria voglia di emanciparsi. Che poi la bellezza sia il mezzo più semplice per raggiungere i propri scopi, le russe lo sanno bene e non lo nascondono di certo. Generalmente sono poco sognatrici, hanno i piedi ben piantati a terra e obbiettivi chiari: fare una bella vita. Sarà un retaggio del comunismo, vedetela come vi pare ma le giovani russe sono tutt'altro che ingenue e per nulla sciocche. Trovare un uomo benestante e allargare i propri orizzonti è la loro priorità e non hanno difficoltà a realizzarla. Che molti occidentali approfittino di questa situazione, è evidente. Cosa c'è di male in un do ut des? Quando si gioca a carte scoperte, non c'è molto di cui parlare!
9) GLI UOMINI RUSSI SONO BRUTTI E ALCOLIZZATI. Molti russi non hanno un aspetto affascinante, questo è vero. Sarà l'impietoso taglio di capelli, sarà la stazza, o i modi di fare, ma raramente ci si imbatte in un Richard Gere in American Gigolò. Mi permetto però di sottolineare non poche eccezioni anche a questo luogo comune, ovvero, a correggerlo aggiungendo un corollario: la maggior parte degli uomini russi non è affascinante, ma quando un russo è bello, è davvero notevole. Quelli belli infatti hanno l'altezza, la prestanza e gli occhi degli scandinavi, ma qualcosa addirittura in più, forse un'espressione più interessante e tenebrosa, forse l'aria meno slavata. Insomma, sono davvero ammirevoli. Riguardo alla faccenda dell'alcool, che ve lo dico a fare che per tradizione culturale in Russia si beve. Si pasteggia a vodka (meglio ancora a samagon, grappa artigianale davvero ottima) ma sempre mangiando qualcosa, ci si siede a laute tavole e ci si alza dopo svariate ore e barcollando. Questo è ciò che dice la tradizione. Ai tempi dell'Unione Sovietica l'alcool era l'unica via di sopravvivenza. I tempi però sono cambiati e anche se ci sono molti strascichi di quel periodo, le nuove generazioni sono più savie dei loro genitori e nonni. Conosco moltissimi ragazzi e ragazze totalmente astemi o comunque molto seri per quanto riguarda l'alcool; neanche un goccio di birra se sono al volante, oppure si ad una birra con gli amici, ma senza esagerare. Senza contare che molti russi sono mussulmani, e tanti anche osservanti. Insomma in questo caso mi permetto di sfatare il mito dell'alcolismo dilagante. Poi certo, quando vai in giro con l'agente immobiliare a vedere appartamenti puoi trovare nell'androne la "sorpresa" di un buon uomo giacente a terra in stato confusionale alle 3 del pomeriggio, ma siamo in Russia mica per niente. Altrimenti, come meta consiglio il Tibet o Dubai, per evitare episodi di questo genere.
10) LA PIAZZA ROSSA NON è NIENTE DI CHE. C'è da dire che gli appassionati della Russia si dividono in fan di Mosca e di San Pietroburgo. Io sono di parte perché appartengo- non s'era capito?- alla prima categoria. Lo ammetto. Ammetto anche che, quando la riempiono di orpelli, piste di pattinaggio, palchi per concerti e parate è difficile ammirarne la grandezza e la profondità, ma vi prego, non toccatemela. Io trovo sia eccezionale, e a questo proposito scrissi un suo elogio, tratto da un mio romanzo non pubblicato, che intendo inserire qui in versione integrale. E con questo concludo in bellezza.
Elogio alla Piazza Rossa
"La piazza Rossa è qualcosa che lascia completamente senza fiato, ma è anche qualcosa che non si può vedere immediatamente. Non è una visione che riempie l’anima di colpo, che si palesa in un istante; al contrario, è una bellezza che va goduta per gradi. Si cammina lungo una via molto larga, si accede ad un piazzale e c’è un’alta costruzione color mattone, una fortezza parata davanti a Lei, che la nasconde. Il castello, però, ha delle porticine, tagliate ad arco. Attraverso una di queste, avviene un prodigio ottico, sapientemente studiato dagli architetti, per cui è possibile sbirciarvi dentro e, in una posizione precisa, vedervi all’interno la famosa cattedrale di San Basilio, come un’icona illuminata in una nicchia. La si scorge d’un tratto, piccola e colorata, con un’accezione fiabesca. La sua dimensione cambia paradossalmente: avvicinandosi alla porta, diviene più piccola, fino ad esserne graziosamente incorniciata. Entrando per quella porticina, si resta attoniti dalla grandezza della piazza. Eppure nelle descrizioni ce la si figurava ancor più immensa, ce la si aspettava più maestosa, e può quasi accadere che in un primo tempo se ne rimanga delusi. Ma camminando, attraversandola tutta, essa si fa sempre più estesa, larga, oblunga, pare interminabile, sembra di essere inghiottiti in un sogno, perchè il pavimento è curvo, e distorce il senso della prospettiva richiamando l’infinito. E la cattedrale stessa diviene sempre più grande, e da ninnolo tascabile si trasforma, quando ci si trova sotto di lei, in una trionfante espressione della ricchezza e della maestosità dell’impero degli zar, e del credo russo, e guardandone la rappresentazione si intuisce che il dio dei russi è orientale e occidentale insieme, non è solo il Cristo, è un dio ibrido; è un viandante bizzarro che si incontra lungo la Via della Seta, è decadenza e sfarzo, spiritualità assoluta, perchè solo laddove ve n’era così tanta, ci si è potuti scagliare contro di lei con la stessa potenza, tramite il comunismo. Ebbene, a me capitò di cogliere la bellezza straordinaria della Piazza Rossa lentamente e progressivamente: ogni volta che vi capitavo, mi appariva più bella e scoprivo dettagli che prima m’erano sfuggiti; le luci stesse del giorno o della sera le davano ogni volta accezioni differenti. L’ultimo giorno, prima di tornare in Italia, andai a farle l’ultimo saluto. Volevo esser sola, con lei. La mia traversata fu introdotta dal violino di un suonatore ambulante, a coronare il patetismo e il lirismo di quel saluto. E, mentre la ripercorrevo tutta, nel mio walk man scelsi le note di un tango argentino. Fu in quel momento, in quei due, tre minuti al massimo, che lo sentii.-Che cosa?-L’attimo di beatitudine! Cose del genere sono le uniche contraddizioni che abbia mai esperito, al mio perseverare nel disprezzo della vita. In ogni altro momento, ho dovuto ricorrere alle passioni. Io ho bisogno di fanatismo, per poter trovare un briciolo più sopportabile l’esistenza. La mania è l’unica modalità in cui so amare. Ho idolatrato tutto ciò che ho amato. Mi sono disperatamente aggrappata a cose materiali: un’immagine, una città, un libro, un aforisma, un corpo, perchè sono le sole cose in cui abbia mai creduto nella mia intera vita, e senza alcuna motivazione logica! Il primo e l’ultimo grido di una stupida nichilista...pensa a quanto sono misera! Idolatrare un corpo materiale o uno scrittore morto, che come un totem, un’icona, non può mai totalmente ricambiare la mia adorazione! Eppure nient’altro, avrei potuto amare a questo modo...nulla di spirituale, per lo meno. "
Iscriviti a:
Commenti (Atom)




















