Non è più il tempo di quel folle che si aggira
per il mercato e annuncia a gran voce: “Dio è morto!”. Perché il folle non
verrebbe neppure ascoltato. Perché Dio è morto da troppo tempo ormai, ed è
sepolto. E su questo, come su tutto il resto, tutto ciò che è spiacevole ed
imbarazzante, è meglio non soffermarsi troppo.
Non ci soffermiamo su un sacco di cose, che
fanno invece parte del nostro mondo. Ignoriamo una quantità incredibile di
informazioni a livello storico, geografico, culturale e politico, ed è una
scelta motivata. Ignoriamo nazioni intere, persino genocidi, se non riguardano
le nazioni di cui ci hanno parlato a scuola o all’università.
-L’ignoranza non è una colpa- dissi un
giorno, riferendomi al fatto che una mia ex collega dell’Uzbekistan non
conoscesse l’esistenza storica dell’Olocausto.
-Certo che lo è. Forse non lo è fino ai 18
anni, ma quando si è adulti, non conoscere diventa una scelta- mi rispose
un’amica.
Aveva ragione. Tuttavia, ci sono certe cose
che non è facile sapere, per chi vive chiuso all’interno di una realtà che
nasconde una visione più ampia dell’insieme degli accadimenti presenti e
passati. Ci sono cose che non è facile sapere per chi ha frequentato la scuola
dell’obbligo in un determinato luogo del globo terrestre- dove si predilige un
certo programma didattico, dove si studiano in maniera più approfondita
soltanto le storie di certi Paesi, “quelli che contano”.
-L’Occidente- andava ripetendo il mio
professore di Filosofia- è impregnato di una patina culturale che influenza la
mentalità, i pensieri, il linguaggio e l’informazione. Noi non possiamo
prescinderne, in quanto siamo nati in queste terre e siamo stati indottrinati
di questa visione del mondo. Il nostro substrato culturale è inalienabile, se
non tramite una profonda violenza contro il proprio passato e una determinata
ed efferata volontà di trascendersi.
E’ anche per questa ragione, che ho sempre
trovato affascinanti le mie trasferte verso Est. Le ho sempre considerate una
necessità di andare al di là del sistema culturale in cui sono cresciuta e che
mi influenza.
Alla luce di svariati viaggi con lunghe
permanenze in Russia ed Ucraina, posso dire che spostarsi già solo di quei
pochi km ad est apre un nuovo tipo di prospettiva. Apre uno scorcio su
mentalità che solo apparentemente sembrano simili alla nostra. Questi Paesi mi
hanno accolto, accarezzato o dato calci; spesso mi hanno fatto ridimensionare
l’idea che avevo di loro. Mi sono scagliata contro le loro rigidità
burocratiche- prima con l’ostinazione di chi non vuol trovar loro alcun
difetto, con l’entusiasmo di chi è un neofita della loro affascinante lingua,
poi con la rabbia e l’insofferenza di chi ne resta irrimediabilmente deluso.
Lavorare in Russia per gli europei è difficile, è un grosso salto. Le e-mail
non sono ancora un metodo di comunicazione lavorativa ritenuto utile (le
aziende controllano la posta elettronica una volta ogni 2-3 giorni se si è fortunati,
e quando rispondono, se lo fanno, di certo non conoscono l’uso del tasto
“rispondi a tutti”). La parola data, orale o persino scritta, non ha un grande
valore. Sembra che ovunque viga la regola del: ci sono regole che vanno
rispettate in modo ciecamente rigido, ma tutto ciò dipende da chi hai di
fronte. E’ come costruire ogni giorno, a poco a poco, un muro di certezze, di
proibizioni, di procedure, e poi vederlo di continuo sfaldarsi a seconda
dell’inserviente/operatore/direttore che si ha di fronte- a seconda del suo
umore, del suo tornaconto personale, della sua apertura mentale. Dopo alcuni
mesi, diventa straziante lottare per risparmiare qualche rublo alla mensa,
perché secondo la signora del giorno prima il piatto di sole patate e riso può
costare 100 rubli, mentre il suo collega il giorno dopo sostiene che “qualunque
cosa tu prenda, costa 300 rubli”. Dopo qualche tempo, alla rabbia subentra la
rassegnazione. Subentra la saggezza di constatare che ogni popolazione ha la
sua forma mentis, le sue idiosincrasie, e che- al di là del fatto che sia
sciocco in ogni caso generalizzare a tal punto- la Russia ha il peso della sua
storia alle spalle, della chiusura culturale durante il Comunismo e poi
dell’improvvisa apertura al capitalismo dagli anni Novanta. La Russia, per la
stragrande maggioranza, è avida, materialista, grezza e piuttosto ottusa. Se
l’Ucraina ha l’attenuante della miseria, che rende patetica e disperata ogni
lotta alla grivna di padroni di bilocali che sperano di diventar ricchi
ingannando qualche turista, la Russia commuove assai meno, perché delle
disparità economiche tra oligarchi e ceto medio ha fatto una bandiera. Eppure
la miseria s’insidia dietro ogni angolo, in ogni periferia, in ogni piccola
città della Siberia, in ogni scalcinata baracca del Caucaso. È una miseria
cieca perché non chiede aiuto né comprensione, perché non è aperta a diventare
ricchezza (sto parlando a livello umano e interiore, non certo soltanto
economico).
Lo ammetto, parlo da disillusa e idealista.
La Russia che sognavo era quella dei romanzi ottocenteschi che ho letto. Era
quella Russia melanconica, profonda e terribile, quella Russia grande per la
sua follia. Era la Russia che ancora traspare da certe cattedrali o certe
pièce, da certi discorsi di giovani o di professori. E’ la Russia che mi è
apparsa, impersonata da un vecchio, un giorno a San Pietroburgo. Il vecchio
stava seduto su un gradino, lungo il sentiero accanto alla Cattedrale di San
Nicola. Aveva lo sguardo, terribile e stralunato, di certi personaggi dei
dipinti di Repin. Fissava me, fissava il mondo e non fissava niente. Il suo sguardo stupito e rabbioso cercava di
non pensare, ma non vi riusciva; conteneva la pazzia della disperazione, della
disillusione, del sopravvivere. Era un vecchio pazzo in un mondo pazzo, sapeva
ogni cosa e forse non sapeva nulla, non pensava a niente, se non di aver
vissuto invano e di stenti- o forse pensando proprio a questo, comunicava
“l’indicibile”. Quel vecchio era la
Russia! Era proprio questo suo “sapere” contenuto nei suoi occhi, che mi dava
un brivido dentro, perché è quando mi trovo di fronte quel volto della Russia,
che sa qualcosa della sua infima grettezza come della sua straordinaria
grandezza, che la riconosco. Che le due immagini- quella delle mie congetture e
quella reale- vanno per un attimo, finalmente, a combaciare.


Perché piangiamo?
RispondiEliminaPerché l'emozione che viviamo supera i limiti di cui il nostro fisico dispone per contenerla.
Così, di getto, quanto scrivi mi richiede violentemente una lacrima.
Arrabbiato, ma non rassegnato, lascio che le tue parole riempiano la mia mente.
Penso tu abbia ragione quando parli di invito al non pensiero. Agevolare una generazione ibrida, facilita il controllo rendendo la società debole, malleabile ed incapace di prendere coscienza di quello che vuole. Viviamo nell'illusione di essere liberi e padroni del nostro quotidiano quando invece, siamo tutti incanalati nei percorsi obbligati che trovi alle uscite degli autogrill sulle nostre autostrade. Dio è morto? No, questo è quanto vogliono farci credere di modo che non si abbia alcun appiglio. Di modo che non ci resti che rassegnarci ad una vita da consumatori. Qualche giorno fa ti chiesi se avessi mai letto Tolstoy e non te lo chiesi a caso.
"Il regno di Dio è in voi" è il testo che ti propongo. Fondamentalmente dice una cosa sola: tutti pensano di cambiare il mondo, nessuno pensa di cambiare se stesso.
Per me la chiave di volta sta proprio qui, e se la metto in atto ecco che l'anziano signore non è più uno scorcio di decadenza, ma un mare di possibilità, un oceano di conoscenza a cui poter attingere.
Credo che la Russia di cui tu parli sia ancora lì da qualche parte, per chi vuole trovarla. Sono le sensibilità percettive ad essere cambiate. Per questo non è più possibile generalizzare. La generalizzazione è ciò che giustifica il non pensiero.
Non c'è nulla da difendere, ma nemmeno da condannare. Semplicemente, credo sia tempo di ripartire da noi stessi.